SOGNO DI NATALE
Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassú; innanzi a un Presepe, laggiú; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: «Buon Natale!» e sparivo...
Ero già entrato cosí, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesú errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo Natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’immagine di Lui m’attrasse cosí, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con Lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai. Subito allora Gesú si sdoppiò da me, e proseguí da solo anche piú leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesú, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, Egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’Egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo. Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesú per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a Lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesú si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case piú umili, ove il Natale, non per sincera divozione ma per manco di denari, non dava pretesto a gozzoviglie.
«Non dormono...» mormorava Gesú, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle
unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: «Anche per costoro io son morto...».
Andammo cosí, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesú innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse: «Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere». Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d’oro alla volta, piena di una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l’altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano ad ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale. «E per costoro – disse Gesú entro di me – sarei contento, se per la prima volta io nascessi
veramente questa notte».
Uscimmo dalla chiesa, e Gesú, ritornato innanzi a me come prima, posandomi una mano sul petto riprese: «Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’ío son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà». «La città, Gesú? – io risposi sgomento. – E la casa e i miei cari e i miei sogni?». «Otterresti da me cento volte quel che perderai» ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari. «Ah! io non posso, Gesú…» feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi
cader le braccia sulla persona. Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. È qui, è qui, Gesú, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.
Luigi Pirandello